domenica 23 giugno 2013

Al mio secondogenito

Cinque anni fa andavo a dormire in un letto non mio, ormai quasi mio, per la prima volta dopo venti giorni senza quella stecca e quella bottiglia attaccate alle mani, con quei dolori che ora arrivavano, non più ogni dieci minuti come nei giorni precedenti, ma ogni minuto, e io sapevo bene cos'erano. Rannicchiata da un lato, troppo consapevole per negarmi la realtà, speravo in qualcosa che già sapevo non poter essere esaudito. Ascoltavo il mio corpo fare di testa sua, senza poter combattere oltre contro la fretta che aveva. Alle cinque del mattino sentii quel rumore. Solo una donna sa cos'è, se lo sente. E se lo ha pure già sentito, non può permettersi il lusso del dubbio. Rimasi ferma, immobile. Dicendomi in quel dormiveglia d'ansia e di un velo di rassegnazione, che, forse avevo sognato. Attendevo il calore che ti inonda, ma nulla. Allora tornavo a mentirmi con spudoratezza, quasi come se mi carezzassi da sola e mi consolassi dall'inquietudine di un brutto sogno. Mi alzai dal letto, non accadde nulla. Arrivai fino al bagno, che la debolezza mi rendeva lontano. Non accadde nulla. Le bugie vollero sembrarmi verità. Arrivai a metà corridoio, e nulla ancora accadeva, e allora ricominciavo a sperare che la mia testa potesse governare quel mio corpo stanchissimo, pesante e contratto. Pensai di essere ormai arrivata alla camera. Poi smisi di pensare. Sentii il caldo e mi ritrovai immersa nell'incubo, e si aggiunsero le lacrime, silenziose dapprima e poi acute e stridule. Un pianto disperato per negare ancora, per rifiutarmi ancora di partecipare a ciò che ora era inarrestabile, nonostante il tempo. Si affacciarono sentendomi da laggiù in fondo, vennero in corsa, mi abbracciarono, mi tranquillizzarono come poterono e mi accompagnarono in un'altra stanza. Di lì a breve avrei avuto il mio bambino. Ma io non ero pronta, da venti giorni ero ricoverata, e mancava ancora un mese e mezzo. Io non ero pronta, il mio bambino era troppo piccolo e io non sapevo ancora nemmeno come chiamarlo. Non volevo partorire. Non lo volevo con la stessa volontà con cui nel deserto desideri l'acqua. Con la stessa, inutile, volontà. A distanza di cinque anni ancora penso che se non ci fossero state le persone che c'erano quella mattina, io non sarei riuscita a far nascere il mio bambino. Furono loro con la loro forza e la loro dolcezza, ad accompagnarmi in un momento che fu, per me, davvero difficile, fisicamente e psicologicamente devastante. A fine mattinata del 24 giugno, nacque il mio bambino, piccolo, ma non tantissimo. Lo guardai. E lo riconobbi. Cristian.

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